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Il testo che segue è
tratto dal libro "Febbre
da gioco", per gentile concessione dell'autore, al quale va il
nostro più sentito ringraziamento.
Il gioco dei dadi non ha solo introdotto dal punto di vista linguistico
i termini "alea" e "azzardo", ma ha anche contribuito a far nascere una
fondamentale teoria matematica: il calcolo delle probabilità.
Anche
se alcuni studiosi ritengono che tale teoria si sia sviluppata
essenzialmente grazie al contributo di studi meno futili, condotti in
ambito economico e giuridico, è storicamente provato che i suoi primi
concetti sono stati formulati affrontando problemi relativi al lancio dei
dadi. Un tale accostamento, solo apparentemente irriverente, è
giustificato dal fatto che le regole dei giochi d'azzardo si prestano a
essere facilmente interpretate mediante un modello matematico pratico e
funzionale, grazie alla loro sinteticità e linearità. Nel mondo antico, il
concetto di probabilità era essenzialmente conosciuto in termini
filosofici, rimanendone del tutto ignoti i risvolti matematici. Il motivo
per cui questi ultimi furono trascurati risiede presumibilmente nella
forma assunta dal primo strumento di gioco d'azzardo: gli astragali
avevano forme talmente diverse tra loro che l'elevata arbitrarietà dei
risultati ottenibili con i lanci non permise di evidenziare alcun tipo di
regolarità meritevole di considerazione da parte dei matematici.
Giordano e Galileo I primi e documentati
studi condotti nel campo delle probabilità risalgono al XVI secolo e sono
riportati nel libro De ludo aleae, scritto da Gerolamo Cardano intorno al
1525 e pubblicato postumo nel 1663. Geniale fisico e matematico nonché
illustre medico, Cardano fu anche un cultore di astrologia e, soprattutto,
un accanito giocatore d'azzardo. Tale passione lo portò a dilapidare
ingenti fortune; per questo, nonostante gli elevati guadagni ottenuti con
intense e molteplici attività, condusse sempre una vita estremamente
modesta. Più distaccato, ma non meno prezioso, fu il contributo apportato
da Galileo Galilei con il trattato "Sopra le scoperte dei dadi",
pubblicato intorno al 1630. Galileo fu spinto ad occuparsi di simili
"frivolezze" dal desiderio di fornire una risposta scientifica a una serie
di quesiti sottopostigli da alcuni gentiluomini fiorentini, appassionati
giocatori della "Zara" (un gioco con tre dadi). Uno degli interrogativi,
al quale invano si era cercato di rispondere, riguardava il motivo della
maggiore frequenza nelle uscite del 10 e dell'11 rispetto al 9 o al 12,
nonostante fosse lo stesso il numero delle combinazioni necessarie per
ottenerli. Galileo rispose che, in realtà, analizzando tutti i possibili
punteggi ottenibili con il lancio di tre dadi, sia il 10 che l'11 possono
ricavarsi in ventisette modi diversi, mentre il 9 e il 12 in soli
venticinque.
Da Pascal a Maxwell Qualche anno più tardi,
nel 1654, il cortigiano Chevaliere de Méré chiese allo scienziato francese
Blaise Pascal se fosse conveniente scommettere alla pari l'uscita di un
doppio 6 su ventiquattro tiri, lanciando due dadi alla volta. Era credenza
diffusa, infatti, che un gioco del genere fosse equo già sulla distanza di
soli 18 tiri (essendo trentasei i diversi punteggi ottenibili dal lancio
di due dadi); l'esperienza, però, contrastava in parte con tale ipotesi.
Determinando esattamente quanti erano i casi possibili e quanti quelli
favorevoli, Pascal calcolò che la probabilità di vincere una scommessa del
genere era del quarantanove e non del cinquanta per cento. Da questi studi
trasse spunto per elaborare i primi concetti del calcolo combinatorio che
rese pubblici, nel 1654, nel "Traitè du triangle arithmétique". Pascal non
riuscì invece a rispondere in modo del tutto soddisfacente a un altro
quesito postogli da Chevaliere de Méré, su quale dovesse essere la cifra
equa da pagare a un giocatore per subentrargli in una data puntata. Il
problema fu risolto tre anni dopo, nel 1657, dal fisico e astronomo
olandese Christiaan Huygens, che in quell'occasione formulò per la prima
volta il concetto di "rendimento" o "speranza matematica". Lo sviluppo di
una vera e propria teoria organica e non intuitiva delle leggi empiriche
del caso richiese ancora parecchi anni di studio. Determinante a questo
proposito fu l'opera dello scienziato svizzero Jakob Bernoulli, pubblicata
postuma nel 1713 con il titolo "Ars conjectandi", contenente le basi del
calcolo combinatorio. La prima rigorosa e moderna sistemazione della nuova
scienza del calcolo delle probabilità fu però compiuta un secolo dopo, nel
1812, dal matematico francese Pierre Simon de Laplace, con il suo trattato
"Théorie analytique des probabilités". Ma fu soprattutto in seguito alle
ricerche del fisico scozzese James Clerk Maxwell che questa teoria iniziò
intorno alla metà dell'Ottocento a trovare applicazioni in altri ampi
della scienza, acquisendo spessore e rilevanza dal punto di vista
scientifico. Negli stessi anni conobbero un grande sviluppo anche gli
studi di statistica, la scienza che analizzando l'insieme di dati raccolti
su un determinato fenomeno ne descrive l'evolversi, delineando una legge
matematica che lo governa.
Il contributo di Bruno de Finetti E' da
sottolineare come nel corso di oltre tre secoli lo studio della teoria
delle probabilità sia riuscito a svilupparsi in modo considerevole
nonostante l'assenza di una definizione convincente e non ambigua del
concetto stesso di probabilità. Infatti, secondo la definizione più
antica, detta "classica", la probabilità che un evento si verifichi
corrisponde al rapporto tra il numero dei casi favorevoli e il numero di
tutti i casi possibili, sottintendendo che questi ultimi debbano essere
tutti "ugualmente probabili". Come si può notare, questa definizione
necessita della preesistenza di un concetto di probabilità; dal punto di
vista matematico non è però accettabile che un'affermazione si basi sullo
stesso concetto che dovrebbe descrivere. In base a una definizione più
pragmatica, detta "frequentistica", la probabilità di un evento è data
dalla frequenza dei risultati positivi ottenibile in una successione di
prove effettuate nelle stesse condizioni; essa, però, presenta il difetto
di non essere operativa nell'analisi di eventi non ancora verificatisi. A
partire dal 1970, il matematico italiano Bruno De Finetti ha contribuito a
dare al concetto di probabilità un significato più sostanziale e concreto.
Secondo la definizione da lui proposta, detta "soggettiva", la probabilità
di un evento è il grado di fiducia (variabile da soggetto a soggetto)
riposta nel verificarsi del fatto stesso. Secondo questa rivoluzionaria
impostazione, la probabilità non dipende più dai fattori che regolano il
verificarsi di un determinato evento, ma piuttosto da una personale
valutazione delle loro implicazioni. Il concetto espresso da De Finetti
consente tra l'altro di utilizzare i risultati legati alle altre due
definizioni (classica e frequentistica), adottandoli in base a una scelta
soggettiva (senza entrare in contraddizione, quindi, con la definizione
assunta). E' bene precisare, comunque, che l'attribuzione soggettiva delle
probabilità non deve essere confusa con un'assoluta arbitrarietà di
scelta; perché possa essere funzionale infatti, la valutazione personale
deve essere espressa nel modo più equo e coerente possibile. |